Partire… è un verbo che nella vita del novizio gesuita ricorre spesso, in alcuni momenti addirittura la affolla. Partire… un verbo che esprime un movimento duplice, o meglio due movimenti che si intrecciano: l’altro che va via e io che resto con me e la mia interiorità, o al contrario, io mi allontano con il bagaglio del mio mondo interiore e l’altro che resta fermo a guardarmi scomparire. Sarà capitato credo a tutti di salire su un treno, voltarsi, dare un’occhiata alla stazione da cui si è partiti e notare che lui o lei è ancora lì a guardarti andare via, a guardarti mentre il treno inesorabile e sordo ti trascina altrove.
La partenza lascia uno spazio aperto, dove si libera l’assenza di chi non c’è ora, o meglio non è fisicamente presente. Tale assenza può provocare e portare alla scoperta di un modo nuovo di stare in relazione, custodendo l’altro al di là del corpo. Il bambino pensa che se non vede la mamma, questa non ci sia e basta. La vita ti prende per mano e ti accompagna un poco alla volta a maturare una dimensione diversa in cui accogliere e conservare la presenza dell’altro, è il giardino della memoria. Un luogo interiore, vasto, dove la presenza amica viene ricordata e custodita.
L’ultima assenza che la comunità del noviziato sta sperimentando è quella dei novizi di primo anno, che sono impegnati in questi giorni nell’intensa palestra degli Esercizi Spirituali. Non parlo della settimana, ma dell’intero Mese. Eravamo sedici in casa e ora siamo sei, più tre formatori. La casa è più vuota e silenziosa. Io e i miei compagni di secondo anno abbiamo deciso di rispondere all’assenza attuando la possibilità della preghiera, favoriti dal clima della casa che a mio parere sembrava invitare a questa scelta. E’ stato un tempo di rilettura dei tre mesi trascorsi, ma non solo. La reazione non è stata soltanto un guardare alle cose state, è stato uno sguardo responsabile rivolto al presente, che dal presente si lasciasse afferrare. Loro sono lì a fare gli Esercizi, e noi abbiamo deciso di accompagnarli con la preghiera, sostenerli nella faticosa traversata. I segni scelti sono stati due. Il primo. Ciascuno di noi, un giorno della settimana assegnato, dedica ai novizi esercitanti l’ora di meditazione del mattino, e durante la Messa comunitaria a loro rivolge un’intenzione di preghiera. Il secondo. Il venerdì, alle diciannove, ci ritroviamo a pregare il rosario per la stessa ragione.
Sono due esperienze di intercessione che tendono a risignificare la partenza e la relativa assenza. Loro, partiti, non sono semplicemente assenti, bensì ritrovati nella preghiera. Chiudere gli occhi, concentrarsi, respirare lentamente, tacere o proferire un’intenzione elaborata nel mentre di quel silenzio o pronunciare le parole ripetitive del rosario diventano i luoghi nei quali scoprire che in Dio l’altro – i compagni impegnati nel Mese – è ritrovato in modo nuovo. Diventano luoghi dove sperimentare una diversa e feconda relazione, di aiuto fraterno. Distanti, ma in Dio ritrovati.