Dall’11 maggio sono isolato in quanto unico della comunità ancora positivo al caro vecchio virus, che ormai mi è compagno di vita da quasi tre mesi.
Se qualche tempo fa mi avessero detto che sarei stato in camera per un mese senza – quasi – contatti con l’esterno e che sarei sopravvissuto, li avrei presi per pazzi. Questa condizione mi è innaturale, non rispecchia le mie inclinazioni, il mio essere un animale sociale – più animale che sociale –, eppure mi sta dando pace. In questa condizione che mai mi sarei scelto da solo, come molte delle cose che mi hanno fatto più bene nella vita, sto trovando la pace. Una pace che viene dal profondo, che non è frutto di mille calcoli o sforzi per ottenerla, che non è cercata ma aspettata, e forse questo è il suo segreto. Nello svuotamento delle quattro mura, passato un primo momento di ordinaria e dovuta follia, si incomincia ad ascoltare. Ci si comincia ad ascoltare. Si comincia ad ascoltarsi, profondamente. Non perché ascoltarsi sia bello o consolante o idillico o surreale o romantico – niente di tutto questo – ma perché non si può fare altro. Quando siamo costretti nella nostra cella di isolamento, che sia quella di un monastero, di una prigione o della casa nella quale viviamo, le nostre barriere crollano. Il mio limite mi si fa presente, la mia forza diventa debolezza, la mia facciata si scioglie, non ho più scuse, non ho più distrazioni e, soprattutto, non ho più aspettative. Sono solo con me stesso. I miei desideri più profondi, spesso nascosti dai desideri degli altri su di me, che adotto senza che mi appartengano, tornano a galla. Non ho più scuse, non ho più un altro sul quale proiettare le mie fatiche e le mie menzogne: sono a profondo e vero contatto con me stesso, e basta. Che liberazione! Una liberazione dal proprio super-io, dal dover essere, dall’apparenza: tutto si trasforma e diventa verità. E la verità ci rende liberi, come diceva qualcuno. Nella calma più piatta e assordante e vuota e che spesso e volentieri fuggiamo, miracolosamente, scopriamo rumori e sensazioni nuove, che non avevamo mai sentito prima, perché non ce lo eravamo permessi. Proprio quel luogo di apparente solitudine e abisso e aridità e desolazione che ho fuggito come fosse un assassino per tutta la mia vita, mi sta donando una vita nuova, una vita che non ha bisogno di sentirsi vivere – alzando sempre più l’asticella come in un senso di rivalsa e di frustrazione perenni – perché già vive, e vive nella pace. Quante volte sono fuggito davanti a un povero che elemosinava il mio amore e la mia presenza dietro la sua mano tesa? Quante volte sono fuggito davanti a un fratello o a una sorella che dietro a una parola di rabbia nei miei confronti nascondeva un profondo bisogno di amore? Quante volte, ancora oggi, continuo a fuggire davanti a questo senso di vuoto che mi si aggrappa al cuore? Ed ecco io vi dico: non abbiate paura! Non abbiamo più paura di ascoltare questo vuoto, di abitarlo, scopriremo che ci dà fastidio perché ci chiede di vincere noi stessi, le nostre insane abitudini, ci chiede di ascoltarci, di lasciar uscire senza paura le nostre debolezze e le nostre fragilità, perché tutti le abbiamo. Non fate finta di non averle, come tutti gli altri fanno, soltanto per sembrare dei giusti agli occhi del mondo: sarete invece ingiusti agli occhi dell’amore, di quell’amore secondo il quale saremo – e siamo già – giudicati. Quanto è più bello vivere a cuore aperto, senza più l’ansia e la paura di dover nascondere i propri limiti!
Guglielmo Scocco, novizio del primo anno