“Conosciamo la grande difficoltà che emerge nel mondo contemporaneo di poter identificare in maniera chiara la povertà. Eppure, essa ci interpella ogni giorno con i suoi mille volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata.” Queste parole dal Messaggio del Santo Padre per la I Giornata mondiale dei poveri il 19 novembre scorso, mi riportano alla mente un’esperienza estiva. Per circa 10 giorni vivo in una comunità di recupero di tossicodipendenti in alternativa al carcere. Sono ragazzi con reati penali alle spalle, in condizione di arresti domiciliari. Non un “convitto di educande”, come mi avverte sornione uno dei ragazzi appena arrivo.
È una straordinaria opportunità che mi porterò nel cuore nel mio cammino di gesuita. E non solo per la ricca cucina locale, la pasta sempre cotta al punto giusto, e quel speciale non so che così difficile da recuperare nei miei luoghi d’origine.
Incontro una realtà di cui non so nulla se non qualche abusato luogo comune. Risuonano forti le famose parole di Papa Francesco ai sacerdoti “Questo io vi chiedo: essere pastori con l’odore delle pecore, pastori in mezzo al proprio gregge”. Non ha senso perdersi in astratti discorsi teologici lontani dalla realtà, e non conoscere la gente, capire le diverse situazioni – anche le più difficili – da vicino.
E la piaga della tossicodipendenza, “una malattia cronica” (come uno dei ragazzi l’ha definita) è un male da combattere con tutte le armi possibili. Purtroppo l’ammirevole impegno e dedizione degli educatori – per me una sorprendente testimonianza di servizio – non può fare molto se non c’è la motivazione e il profondo desiderio dei ragazzi di uscirne.
Incontrare tanta umanità è affascinante. Vedo il loro humour, la loro ironia in situazioni grottesche e assurde, accanto alle loro qualità, i lati positivi presenti anche nei momenti più bui. Tutto questo mi induce a riflettere sulla presenza del Signore in ogni persona. Tra loro – in genere tristemente bollati come rifiuti umani – c’è tanta bellezza, anche se non sempre evidente.
L’ironia di Andrea, l’ateo in ricerca che ha chiamato il figlio Cristiano, lo spirito servizievole di Emanuele, che si fa in quattro perché tutto funzioni nella comunità, la disponibilità di Giuseppe, sempre pronto ad aiutare l’altro, sono solo alcune delle piccole perle raccolte, un invito a riflettere sulla bellezza dell’uomo e della vita, un regalo di Dio da onorare e valorizzare in tutte le situazioni.
E, ancora una volta, uno sguardo ironico permette di vivere con leggerezza la tragicità di alcune circostanze. Guido, un ragazzo con cui vado a correre si mette in testa che la vita del gesuita è facile e bella – studi gratuiti, viaggi, esperienze – al punto da pensare di intraprendere il cammino sulle orme di Sant’Ignazio. Il fatto di avere la bestemmia facile sembra non toccarlo minimamente, e alle mie timide osservazioni risponde sorpreso con un “Piero ma come sei fishhhcale”. È bastato fargli presente che i gesuiti non fanno sesso, per vedere crollare ogni suo dubbio in merito alla presunta vocazione.
Tanti anche i momenti tristi che mi lasciano sconforto e amarezza. Per alcuni di loro – privi di vera motivazione o semplicemente troppo radicati nel vizio della droga – ogni attività o proposta di recupero sembra vana. In questi momenti d’insuccesso e delusione vorrei abbandonare tutto. Perché restare qua se non c’è niente da fare? Un mattino mi richiamano alla vita le belle parole di uno degli educatori del centro: “Piero, siamo chiamati ad amare, non a riuscire“.
E a volte, ascoltando alcune delle loro storie faccio fatica a trattenere le lacrime, molte mie certezze crollano. Ivan mi gela il sangue quando mi dice con un sorriso che, ficcandosi l’ago in vena, non ha paura di morire ma di restare in vita perché “con tutte quelle schifezze con cui tagliano l’eroina non sai mai se sopravvivi, ma a questo punto meglio la morte”. Daniele entra nei dettagli dei suoi viaggi di narcotrafficante con i preservativi imbottiti di coca nello stomaco. E Mirko con tutte le carte in regola per avere una vita bella e dignitosa (moglie, figli, azienda familiare) guarda con timore il giorno del ritorno a casa per la certezza di ricadere nel vizio in quanto “il richiamo della sostanza è per me troppo forte”. Edoardo a 23 anni è sopravvissuto a due overdose.
Hanno visto amici e parenti morire per droga o suicidio, e spesso vengono da situazioni familiari agghiaccianti. Ascoltando queste storie penso alle parole di Papa Francesco durante le sue visite ai carcerati “Perchè loro e non io? Questo è il mistero che mi unisce a loro“. Le loro storie e situazioni mi hanno imposto da un lato una sospensione del giudizio personale e dall’altro il dovere/desiderio di non passare oltre davanti agli interrogativi della sofferenza. In che modo ancora non lo so.
Non saprò mai quanto io sia riuscito ad aiutare i ragazzi; certo loro hanno aiutato me. Mi hanno accompagnato nel mio cammino di crescita verso Dio, con e attraverso la sofferenza e la povertà umana.
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