GESUITI noviziato
Noviziato della Provincia Euro-Mediterranea della Compagnia di Gesù
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Unë jam Giacomo…

di Giacomo Andreetta

Non mi era mai capitato di finire in un luogo in cui non riuscivo comunicare tutto ciò che pensavo o provavo. Al Cottolengo, o in altre strutture con disabili, mi era capitato di sentirmi un po’ a disagio, ma poi ci si scioglie e si riesce a comunicare reciprocamente, con gesti, suoni, carezze.

In Albania invece mi sono ritrovato in un ambiente totalmente diverso, per cultura, storia e, soprattutto, lingua. Mi sono sentito vicino ai miei compagni che sono arrivati in noviziato e si sono imbattuti anche loro in un mondo totalmente altro (infatti proveniamo da ben quattro nazioni diverse!).

Eccomi allora privato dell’uso della lingua con la gente comune, o nei gruppi di giovani in cui si condividevano vissuti, emozioni e sogni. Per fortuna c’era chi traduceva, ora erano le suore, un ragazzo o una ragazza, padre Zef… Insomma, qualcuno c’era sempre con noi per poterci rendere partecipi, ma personalmente ho fatto molta fatica.

Il primo ostacolo ero io stesso: volevo a tutti i costi capire, farmi capire, dimostrare che c’ero, ero là per gli altri e con gli altri. Risultato? Un mal di testa da impazzire, perché era impossibile. E io sono un tipo testardo, se voglio riuscire, ce la devo fare, a tutti i costi. E invece sbattevo la testa contro un muro. Non è facile accogliere il proprio limite, avere l’umiltà di pazientare, di non avere tutto subito. Anche perché la gente non mancava di venire incontro: chi ti dice due parole in italiano, chi in inglese, chi ti insegna qualcosa in albanese. Accogliere ed accogliersi per donarsi. La lingua non era una priorità dell’esperienza della Quaresima.

Il secondo era l’autonomia: se sai la lingua, giri un posto e capisci cosa dice la gente, ti fai cullare dai discorsi dei passanti; incontri gli studenti che hai visto al collegio (nel mio caso, di Scutari) e magari scambi due parole su come va, la scuola, la famiglia… E invece c’era l’imbarazzo di cosa dire, cosa si capisce e cosa no, l’essere “straniero in terra straniera”. Mi è parso di vivere, dall’altra parte, cosa capita nel mio paese nel cuore del Veneto quando passa una persona forestiera: tutti si girano, ti squadrano e si legge negli occhi “xhé foresto!” (= è un estraneo).

Non è mai mancato, per fortuna, anche la capacità di ridere su questa situazione, sia con i padri e i gesuiti in formazione, sia con Cornel, mio fedele compagno di avventura; questo ha alleggerito la situazione ma anche mi ha fatto apprezzare maggiormente chi, inviato in questo Paese, mette tutto sé stesso per poter padroneggiare la lingua, per farsi sempre più prossimo.

Qualche parola alla fine l’ho anche imparata, alla S. Messa le risposte non mi sembravano più così aliene, mi sono molto rappacificato con me stesso e il mio non-capire. Alle volte non è tanto la lingua il problema, ma quanto ci si vuol lasciare scalfire dalla realtà, dall’altro. Ci sono comunicazioni profonde che vengono veicolate anche solo da un gesto o uno sguardo.

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