Il secondo esperimento del Noviziato consiste nel servire per un mese in un ospedale, consumandovi i pasti e dormendovi, aiutando e servendo tutti, infermi e sani, per più ore al giorno, secondo gli ordini ricevuti. [dall’Esame Generale]
Gesù ha amato le persone sofferenti ma non giustifica la sofferenza, mai pronuncia ripugnanti parole come: “Bisogna fare la volontà di Dio”. Gesù si fa a loro vicino con pudore e coraggio, mostrando che non è la volontà di Dio.
Quando fragilità umane, malattie, infortuni, difetti ereditari, imprudenze, colpe ci portano la sofferenza Dio si mette al nostro fianco. Dio non manda la sofferenza ma anche nel dolore apre possibilità di rivelazione. Dio non forza il nostro cammino: solo la nostra libertà può portarci a Lui. Alcuni intuiscono la Sua presenza, trovano un senso, ritrovano se stessi e riscoprono la vocazione profonda della nostra esistenza. Altri nel dolore possono sentire la presenza di Dio solo per la nostra accogliente, umana mediazione. Dio ci chiama a cooperare affinché il dolore possa diventare uno spazio di vita; il nostro amore concreto, fatto di cura, di presenza, di rispetto, di condivisione può far scorgere il Suo amore, quello che può trasformare la vita di un sofferente.
Così noi abbiamo vissuto con le persone che animano Piccola Casa del Cottolengo non per ripetere frasi consolatorie ma per approfondire la nostra chiamata a essere compagni di Gesù anche nel sanare: non possiamo fare miracoli ma possiamo prenderci cura degli aspetti esistenziali della malattia.
La sofferenza conduce all’isolamento e all’emarginazione, come il lebbroso costretto a vivere fuori dal villaggio; abbiamo quindi toccato la loro carne, ci siamo abbracciati con amicizia e affetto.
La sofferenza esaurisce le risorse economiche, emotive, relazionali, come l’emorroissa ridotta a toccare di nascosto il manto di Gesù; abbiamo quindi offerto con gratuità e generosità tempo e attenzione.
La sofferenza ti fa considerare, da te stesso e dagli altri, un peso, come il paralitico portato sul lettino; abbiamo quindi ascoltato storie che racchiudono una vita intera ed esperienze preziose, accettato ogni aiuto ci fosse offerto.
La sofferenza ti imprigiona nella difficoltà di ascoltare e di essere ascoltati, come il sordomuto della Decapoli; abbiamo quindi prestato attenzione e ricostruito il pensiero e la volontà dietro un gemito, un tremito nell’occhio, un irrigidirsi del corpo.
La sofferenza istiga ribellione, accuse, bestemmie, schiaccia con un senso di vuoto sconfinato, come l’altro ladrone in croce; abbiamo quindi pregato con loro: “Ricordati di me”.
E abbiamo pregato per loro affinché, vedendo come Dio li guarda, imparassimo ad amarli come Dio li ama.
Consolare è la nostra capacità di dare all’altro qualcosa di più vero del suo dolore.
Consolare significa far vivere nella speranza chi è senza speranza.
Consolare significa permettere a chi soffre di vedere in noi l’amore di Dio per lui. (Vladimir Ghika)