“Ma voi fate penitenza?” mi ha chiesto una signora della parrocchia uscendo dalla Messa. La domanda evoca cilici, digiuni e flagelli, l’ombra di una vita religiosa intrisa di mortificazione. Come novizi prendiamo coscienza della nostra vita, anche dei nostri peccati, e viviamo anche da penitenti. Ma la penitenza non nasce e non mira al dolore.
Esiste una penitenza congenita al peccato stesso: è la situazione creata intorno e dentro di noi dai nostri peccati: inquietudini, amarezze, rigidità, relazioni incrinate, rinunce, occasioni perdute, dignità o salute offese. Se ho mancato alla fiducia in me riposta da un amico, dovrò sopportare la sua esitazione a fidarsi nuovamente di me e quel lampo, pur breve e nascosto, di dubbio nei suoi occhi alle mie parole. Dio non aggiunge nulla per punirci, non aggiunge un Suo male al male da noi commesso. Qui possiamo fare esperienza della verità delle nostre scelte.
Esiste una penitenza legata alla contrizione: per quanto e per quante volte possiamo allontanarci da Lui, quando scegliamo la via di casa, Dio ci correrà incontro per riabbracciarci e rinnovare la nostra relazione; rimangono però le ferite e le fratture che abbiamo causato a noi stessi e ai nostri fratelli e di cui ora ci rendiamo conto. Il pentimento è operoso, ci chiama a prenderci cura, a riparare, a scusarci, a rendere “quattro volte tanto” quello che abbiamo rubato, anche se il fratello non fosse disposto a credere al nostro ravvedimento e a perdonarci. Qui possiamo fare esperienza della nostra responsabilità.
Esiste una penitenza per camminare in senso contrario a quanto ci allontana da noi stessi, dai nostri fratelli e da Dio; questo impegno è detto ascesi o, ignazianamente, agere contra. Occorrono pazienza e costanza per risanare le abitudini disordinate che inquinano il nostro tempo e le nostre relazioni. Il tratto distintivo di questa penitenza non è l’orgoglio di quello che riusciamo a imporci ma la gioia di vivere più pienamente. In casa la sveglia suona presto affinché ognuno possa pregare prima di immergersi nel flusso della giornata. Se non riesco ad alzarmi, non serve che io lasci la carne a pranzo: devo lasciare il letto, ogni giorno, al suono della sveglia. Qui possiamo fare esperienza della nostra libertà.
Esiste la sofferenza per il male del mondo che più acutamente vive chi si incammina sulla strada del Signore. È la sofferenza della madre per il figlio che sta perdendo la propria vita, dell’amico per un amico che appassisce, di Dio, nostro Padre e Fratello, per noi quando rifiutiamo i Suoi doni: la vita, l’amore, la ragione, della libertà… Davanti al male il nostro cuore non resta indifferente, a volte chiama all’azione, anche al sacrificio, a volte chiama alla vicinanza, alla pazienza, alla testimonianza. Qui possiamo fare esperienza della Croce e della compassione.
Siamo sempre chiamati alla conversione e al rinnovamento: l’amore, non il dolore, salva.