Ascoltando la canzone di Levante “La rivincita dei buoni”, in cui la cantante intraprende una lotta per raggiungere la felicità (“Vincerò le mie paure, indosserò l’armatura migliore”) – e più precisamente una lotta interiore (“La mia antagonista porta il mio nome, Che vinca il migliore”) -, mi sono ricordato di un brano, su cui – noi novizi del primo anno – abbiamo meditato durante il ritiro di prima probazione: Romani 7, 14- 25.
In questo passo, Paolo descrive il conflitto interiore che si agita in lui: il suo desiderio di bene si scontra con il male (che non desidera), ma che – di fatto – compie. “[…] non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio […]. Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio. Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo compio, ma è il peccato che abita in me.“
Penso che quella di Paolo sia un’esperienza in cui tutti possiamo immedesimarci e ci testimonia che dentro di noi ci sono dinamiche al di fuori del nostro controllo. Di fronte a questi meccanismi, la reazione che spontaneamente mettiamo in atto è una tenace lotta contro di essi, ottenendo però il risultato opposto: ne diventiamo le vittime e invece che averne il controllo, siamo controllati da essi. Più ci sforziamo, e più queste dinamiche acquistano potere, diventano totalizzanti… più ci impegniamo, confidando solo in noi stessi, perché crediamo che tutto sia nelle nostre mani, e più ci ritroviamo sconfitti…
Come fare allora per vincere questa lotta interiore, se ogni nostro sforzo sembra essere inefficace, anzi controproducente?
Io credo che ci possa essere d’aiuto l’esempio di Gesù, la cui intera esistenza è contraddistinta da un affidarsi, da un affidamento assoluto all’amore del Padre; quest’atteggiamento raggiunge l’apice dell’intensità all’avvicinarsi della sua morte, quando dice: “sia fatta la tua volontà e non la mia volontà”. E proprio così riesce a vincere il male (e le tante dinamiche che ci tengono bloccati e paralizzati), cioè “mollando” definitivamente la presa perfino sulla propria stessa vita.
E perché ci stupiamo se per vincere bisogna mollare, arrendersi?
D’altronde non ci ha insegnato che per essere primi, bisogna essere ultimi; che “chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”; che “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”; etc.. Tra i tanti paradossi che ci ha insegnato, questo a me sembra il più comprensibile – o perlomeno – il più verificabile… basta provare a “semplicemente” disporsi, senza avere la pretesa di fare di più delle nostre capacità, ad abbandonarsi al dolce scorrere della Vita, senza quelle paure che ci fanno aggrappare a false e transitorie sicurezze, perché è proprio questo aggrapparsi e resistere che – alla fine – ci fa e fa male.
E quindi sì – anche se sembra strano, soprattutto per noi cui è stato insegnato che bisogna avere sempre tutto sotto controllo a qualunque costo – per vincere bisogna imparare ad affidare, a lasciar (e lasciarsi) andare, a “mollare” la presa, proprio come dice la stupenda canzone di Niccolò Fabi: “E apro piano le mani,
Cerco di non trattenere più nulla, Lascio tutto fluire, L’aria dal naso arriva ai polmoni, Le palpitazioni tornano battiti, La testa torna al suo peso normale, La salvezza non si controlla… Vince chi molla.”
O, per dirlo con un’altra immagine evocativa, serve “leggerezza” (da non confondere con superficialità!):
“È buio perché ti stai sforzando troppo. […]
Con leggerezza, bimba, con leggerezza. Impara a fare ogni cosa con leggerezza. […] Sì, usa la leggerezza nel sentire, anche quando il sentire è profondo. Con leggerezza lascia che le cose accadano, e con leggerezza affrontale. […]
Dunque getta via il tuo bagaglio e procedi.
Sei circondata ovunque da sabbie mobili, che ti risucchiano i piedi, che cercano di risucchiarti nella paura, nell’autocommiserazione e nella disperazione.
Ecco perché devi camminare con tale leggerezza.
Con leggerezza, tesoro mio.”
(L’isola – Aldous Huxley)
Lorenzo Zura, novizio del primo anno