Il «Novecento» è stato il “secolo dei campi”. L’inquietante definizione trae spunto da un libro di due autori J. Kotek e P. Rigoulot¹, in cui narrano come il ricorso allo strumento del campo di concentramento – come luogo fisico di segregazione di un numero indefinito di individui – sia stata una pratica diffusa in diverse regioni del mondo. Le esperienze più luciferine delle politiche discriminatorie e segregative ebbero la loro più parossistica e drammatica epifania nell’Unione Sovietica e nella Germania nazionalsocialista ove i campi di concentramento diventano strumenti funzionali per l’eliminazione fisica del nemico di classe o della razza ariana.
In realtà la logica dei campi di concentramento continua a persistere nella trama legislativa delle coeve democrazie dei Paesi occidentalizzati, giustificata da un latente anticosmopolitismo statalista che non tollera la pressione migratoria all’interno del proprio territorio.
L’Italia, nel corso del tempo, a questi “spazi fisici”, ove si raccoglie “l’avanzo di un’umanità prodotto dal benessere effimero e superficiale di pochi”, ha attribuito epiteti, originanti acronimi diversi, lasciando però inalterata la loro funzione discriminante e ghettizzante. Tutto ciò è stato consumato in nome del principio internazionale che assicura ad ogni Stato il pieno controllo dei propri confini. L’esistenza di questi campi alle periferie delle nostre città, non solo stride con i principi di uno Stato di diritto – che non può tollerare forme di “detenzione amministrativa” scevre da responsabilità penale -, ma genera prassi governative improntate all’arbitrarietà e all’irragionevolezza che alimentano nella società civile un clima di diffidenza verso chi è etnicamente diverso o svantaggiato socialmente. H. Arendt, nel suo celebre saggio, “La banalità del male”, sostiene che il nazionalsocialismo strumentalizzò le paure e le insicurezze del buon padre di famiglia tedesco per spingerlo a trasformarsi in un ingranaggio della efficiente macchina sterminatrice degli ebrei che furono mandati nei campi di concentramento come carta al macero. Lo sterminio istituzionalizzato può ancora ripetersi se non contrastiamo l’“analfabetismo emotivo” dilagante che tollera comportamenti xenofobici verso chi ci inquieta presentandoci il conto della sua “povertà ereditata” dalla civiltà del benessere. Opifici di morte come Auschwitz segnano un punto di non ritorno per l’Europa. Tuttavia le democrazie costituzionali contemporanee rischiano di dimenticarlo quando per governare il displaced persons inciampano scandalosamente nella logica del campo per gestire le numerose schiere di profughi che battono alla porte del confine per trovare rifugio dalla guerra o sfuggire dalla indigenza più assoluta. I centri di detenzione per migranti eretti in nome della sicurezza del buon cittadino riprendono di fatti il format del campo di concentramento che relega gli stranieri in microcosmi paralleli ai nostri centri urbani, soggetti a misure restrittive della libertà personale. Un affievolimento dei basilari diritti umani non giustificato dalla salus populi.
Diffondiamo la cultura dell’accoglienza, praticando l’esercizio del noi che non tollera le fiere dei buoni propositi dal ventre infecondo di azioni concrete. Non si può celebrare il giorno della Memoria narrandolo con la celebrazione di cerimonie fatte per i circoli dei benpensanti per poi rimanere indifferenti nei confronti di chi alimenta la cultura del sospetto, diffondendo false verità per meschine ragioni di “consenso elettorale”. Impariamo da Giorgio La Pira il cui impegno politico può dire ancora molto a chi oggi si occupa della cosa pubblica. Dal Vangelo deduceva il suo modo di vivere e pensare. Difatti affermava quando la sua coscienza entrava nel travaglio della vita: “cambiate la legge perché io non posso cambiare il Vangelo”.
Talvolta può essere vero che «la maggioranza ha la forza ma non la ragione». E allora bisogna obbedire alle non scritte leggi divine – come La Pira o l’Antigone di Sofocle – anche se tale obbedienza possa avere conseguenze tragiche. L’amore cristiano per il prossimo, i valori illuministi e democratici di libertà e tolleranza, gli ideali di giustizia sociale sono fondamenti universali che nessun Stato o Creonte può violare. Non ci si può sottrarre alla responsabilità di scegliere un valore universale e comportarsi di conseguenza. Se rinunciamo a quest’assunzione di responsabilità in nome di una falsa sicurezza a difesa degli inclusi, non solo si tradiscono le leggi della coscienza ma ci si rende complice della barbarie che in altre regioni del mondo continua a “seppellire vivi”, nell’indifferenza di molti e con l’uso di “leggi manifesto” – come ieri – uomini come noi. Questi nostri fratelli provati dalla violenza e dall’odio della guerra espiano la colpa di desiderare “un’altra vita” in un mondo che non gli riconosce più la loro dignità umana, criminalizzando ciò che hanno: la loro “povertà”.
Marco Maio, novizio di secondo anno
¹ . Kotek, P. Rigoulot, “Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: la tragedia del Novecento”